domenica 14 febbraio 2016

La tenda, i poveri e noi


La tenda, i poveri e noi
Una lettera di quattro parroci
Quaresima 2016



In Quaresima noi sacerdoti abiteremo una tenda allestita sul sagrato della Chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente. Questa decisione nasce dalla presa di coscienza che il prezzo del nostro benessere è la riduzione in miseria di altri esseri umani. E’ facilmente dimostrabile: se dovessimo garantire a tutti gli uomini il tenore di vita europeo o americano avremmo bisogno di cinque pianeti. Ma siccome ne abbiamo soltanto uno, noi occidentali ci siamo presi da un secolo a questa parte il diritto di mettere le mani sulle risorse naturali dell’altra parte del mondo e di saccheggiarle a piacimento. Per evitare intralci abbiamo poi lavorato assiduamente per impedire che in quei paesi crescessero democrazia, autonomia economica e diritti umani. Ecco perché i paesi poveri continuano a restare poveri.

Se Europa e Stati Uniti dovessero pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini consumistiche. Il costo della vita qui da noi è alto ma costerebbe ancora di più se i paesi poveri potessero mettere al centro della loro economia i loro bisogni invece che i nostri. Per questa ragione nessuno in occidente sembra prendere sul serio una prospettiva del genere. Ecco dunque la nostra decisione: staremo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà. In ogni caso bisognerà mettere a punto stili di vita coerenti con questa intuizione. Intanto con questo gesto vogliamo dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del mondo. E che si può essere felici anche con meno.

Ma le ragioni della nostra scelta non finiscono qua. Se avete un po’ di pazienza cerchiamo di spiegarlo. L’insaziabilità delle nazioni europee e degli Stati Uniti non ha trovato freno neppure tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso, quando la cultura dei diritti umani era riuscita ad appassionare ampi settori dell’opinione pubblica e del mondo accademico e culturale. In quegli anni era più difficile condurre guerre in santa pace senza avere alle costole qualche attivista che gridasse in difesa dei diritti umani. Le cose poi hanno cominciato a cambiare. In peggio.

Negli ultimi trent’anni la ricchezza e il potere politico si sono concentrati a tal punto nelle mani di pochi gruppi finanziari che questi sono stati in grado di mandare intenzionalmente a rotoli interi scomparti dell’economia mondiale con l’intento di trarre profitto dalla loro rovina. Hanno ingenerato così la crisi senza che nessun governo o organismo internazionale abbia mosso un dito per impedirlo. Proprio la crisi economica è stata l’ultimo atto di una commedia nella quale l’occidente ingordo cadeva vittima di se stesso. La povertà ha cominciato così a riguardare non soltanto il terzo mondo ma anche porzioni significative di popolazione europea e americana. La crisi economica voluta dalle lobby finanziarie con la complicità degli organismi internazionali di controllo e di governo, ha messo sul lastrico famiglie, ha mandato in fallimento aziende, ha provocato disoccupazione, ha generato precariato, indebitamento e sfruttamento lavorativo, ha spento la fiducia, ha rubato il futuro ai giovani e la pensione ai lavoratori. Il capitalismo selvaggio che fino ad allora aveva dissanguato il terzo mondo, scatenava ora la sua offensiva sulle economie occidentali. Per i poveri del terzo mondo le cose non cambiavano. Vittime erano. Vittime restavano. Le cose sono cambiate invece per la classe media di casa nostra che si è vista ridurre drasticamente il potere d’acquisto e le garanzie previdenziali e assistenzia-li. Non è stato difficile per i veri responsabili della crisi mondiale dirottare la rabbia diffusa della nostra gente contro i migranti. E’ bastato descriverli come invasori intenzionati a rubare il lavoro e a cambiare le nostre tradizioni. E la gente ha abboccato prendendosela col nemico sbagliato.

Per distogliere l’attenzione dalle loro catastrofiche politiche economiche ed estere, i nostri governi (Stati Uniti in testa) hanno sempre scaricato la colpa su qualche nemico esterno. Tempo addietro avrebbero dato la colpa all’Unione Sovietica. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino era necessario trovare qualcun altro. La scelta cadde sul mondo arabo islamico. Le ragioni sono storiche. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale (Francia e Inghilterra in particolare) si erano letteralmente divise a tavolino il Medio Oriente e il Nord Africa instaurando un regime coloniale teso principalmente a sfruttare economicamente quei territori e favorendo l’ascesa di regimi collaborazionisti. La scelta di permettere l’insediamento violento di Israele espellendo i palestinesi dalla loro terra natale, lasciando al contempo inattuate le risoluzioni ONU che nel corso dei decenni hanno ripetutamente condannato il sedicente stato ebraico è coerente con questa scelta colonizzatrice.

L’ingerenza massiccia nel controllo dell’area mediorientale è venuta alla luce ogni volta che emergevano aspiranti leader ribelli alla sottomissione imposta dall’Occidente e dal suo avamposto Israele. La politica americana ha sempre cercato dapprima di comprare l’obbedienza di questi leader. Quando la compravendita non ha funzionato, l’America non ha mai esitato ad abbattere questi leader mediante colpi di Stato e aggressioni militari sempre sulla base di pretesti, a volte del tutto inventati. Nella più totale indifferenza dell’Europa. E’ successo in Iran all’inizio degli anni ’50; è successo con Saddam Ussein in Iraq. E’ successo con Gheddafi in Libia; sta succedendo adesso con Assad in Siria (senza successo); è successo con il presidente Morsi in Egitto non gradito a Israele; è successo perfino nella nostra Europa con il colpo di Stato architettato dai servizi segreti americani in Ucraina neppure due anni fa per deporre il presidente legittimo Yanukovich (colpevole di essere amico dei russi) e insediare il fascista Porosenko, amico degli americani.

La necessità sempre più frequente degli Stati Uniti e alleati di ricorrere apertamente alle armi per costringere i popoli all’obbedienza, dimostra che l’impero americano (e alleati) è diventato più debole economicamente e politicamente. La sua leadership ha cominciato a traballare allorché nuovi soggetti economici hanno fatto capolino: India, Cina, Brasile. E ora di nuovo la rediviva Russia. Il lento declino avrebbe dovuto consigliare agli strateghi d’oltreoceano e a quelli nostrani di modificare le proprie politiche economiche e militari, rinunciando ad esempio a una quota di poteri e privilegi, favorendo una distribuzione più equa delle ricchezze e promuovendo realmente la democrazia. Invece nulla di tutto questo. Americani e soci hanno deciso di usare un pugno di ferro ancora più duro per schiacciare chiunque avesse osato modificare la gerarchia del mondo. Si spiega così la decisione all’inizio degli anni ’90 di dare una lezione al vecchio alleato e dittatore Saddam, reo di usare la sua dittatura contro gli interessi americani invece che in loro favore. Saddam in fondo voleva emulare la politica conquistatrice dell’occidente. Il problema si sarebbe potuto risolvere con altri mezzi. Un’ampia rete di movimenti manifestò in quei mesi contro l’intervento militare. Bandiere colorate apparvero sui municipi, sui campanili, alle finestre della case, nelle scuole. Ma i nostri governi europei ascoltarono gli strateghi e i comandi statunitensi e vollero compatti la guerra. Una coalizione di 34 paesi guidati dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU muoveva guerra alI’Iraq riducendolo a brandelli e uccidendo in sette mesi decine di migliaia di persone inermi. Prima o poi doveva succedere che il costante sfruttamento da parte occidentale delle risorse altrui, la repressione delle aspirazioni democratiche insieme al finanziamento della corruzione e del terrorismo insieme ai bombardamenti avrebbe moltiplicato i focolai di guerra, diffuso le cellule cancerogene della violenza e dell’estremismo di stampo laico o religioso oltre che rendere la vita impossibile alle popolazioni di quelle terre. La Guerra del Golfo fu il detonatore di questa spirale di distruzione che è ancora in corso. Da allora il conflitto è andato allargandosi all’intero Medio Oriente ed è stato ricorso continuo ai bombardamenti, crescita abnorme delle vittime civili, diffusione di cellule terroristiche filo-occidentali e anti-occidentali e fuga impazzita di milioni di persone dalla morte.

La crisi economica, la migrazione e il terrorismo sono frutti delle insane politiche occidentali. Eppure vengono usate in Europa come argomenti per convincere l’opinione pubblica a incrementare invece di ridurre la politica muscolare della NATO e a rinunciare alla “patetica” difesa dei diritti umani. Per quanto le responsabilità dei nostri paesi siano clamorose e le vittime di questa guerra siano soprattutto bambini, nessuno sdegno pacifista percorre più le strade d’Europa, a meno che i morti siano europei, americani o israeliani. I civili europei ammazzati meritano cortei. Quelli medio orientali no. L’Europa che negli anni ’90 aveva preso le difese dei neri in Sudafrica non c’è più. Cos’è successo da ridurci in questo stato? La propaganda occidentale ha utilizzato la crisi e il terrorismo per alimentare la paura e ridurre al silenzio la critica interna. Poche, anzi pochissime sono le voci che si alzano contro la corsa europea agli armamenti e gli interventi militari, contro i massacri di civili in Medio Oriente, a Gaza e in Africa, contro le complicità degli stati nel traffico degli esseri umani. Poche sono le voci indignate per la chiusura delle frontiere, contro le politiche coloniali, contro l’ingerenza politico-militare dell’occidente sempre travestita da intervento umanitario. Pochissime le voci contro l’oppressione israelo-americana dei palestinesi, contro il vassallaggio europeo nei confronti dell’America. L’indifferenza dell’opinione pubblica è assordante. La gente d’Europa e d’America preferisce non conoscere. Preferisce credere che se i nostri governi bombardano hanno sicuramente buone ragioni. E che il terrorismo è una buona ragione per bombardare. Il risultato di queste buone ragioni sono paesaggi rasi al suolo da cui spuntano come spettri rovine di edifici a ricordare che un tempo sorgevano città. Degli abitanti nessuna traccia: uccisi sotto i bombardamenti, giustiziati, morti di fame e sete, sotto assedio per anni, venduti, comprati e rivenduti. Chi ha potuto si è messo in fuga affrontando odissee inenarrabili, tallonato da paramilitari, eserciti allo sbando, milizie straniere, mercenari al soldo di gruppi contrapposti. Chi ha innescato tutto questo? A chi interessa che tutto questo continui? E soprattutto: a chi interessa veramente saperlo?

Sono state le cattive politiche occidentali il brodo di coltura che ha permesso alla corruzione dei paesi arabi di prosperare, alla rivalità storica tra le fazioni religiose di acutizzarsi e all’estremismo islamico di trovare pretesti. La società “civile”, gli intellettuali e i mass-media occidentali non possono nascondere o minimizzare questa responsabilità. E neppure sono autorizzati a confondere le vittime con i carnefici. In uno stato di diritto le garanzie di un processo equo vengono date a tutti, anche agli assassini, ai ladri, ai violentatori. Che cosa autorizza l’Europa a chiudere le porte in faccia a gente che fugge da guerre che l’Europa stessa ha contribuito a innescare? Com’è possibile lasciare che le persone continuino ad annegare senza che l’Europa decida uno straccio di corridoio umanitario a cui protezione sì che servirebbe impiegare l’esercito?! La verità è che l’Europa è avida. Vuole le ricchezze dei poveri, non i poveri. Ferma i profughi alle frontiere mentre da più di un secolo le oltrepassa per spadroneggiare in casa loro. La verità è che l’Europa non vuole più sottoscrivere i diritti universali dell’uomo a cominciare dall’articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.

 Nell’Europa di oggi, “essere umani” non soddisfa i requisiti minimi. Ciò che serve in Europa in ordine di importanza per ottenere riconoscimento è possedere capitali ed essere cittadini. Nessuna via preferenziale a chi fugge dalle guerre. Lo status di rifugiato viene rilasciato soltanto ad un prezzo altissimo: essere riusciti a scampare ai bombardamenti, essere sopravvissuti alle torture, ai rapimenti e alle onde del mare. Nessun riconoscimento è dato a chi proviene da regioni impoverite da un sistema globale ingiusto e ha rischiato la vita per trovare dignità. Questa è l’Europa: pronta ad amputare uno dei capisaldi della propria migliore tradizione umanistica (i diritti dell’uomo) piuttosto che cedere quegli stessi diritti ai poveri che essa stessa ha contribuito a creare. L’Europa delle istituzioni scarica sulla buona volontà di molti cittadini volontari europei il compito di salvare le apparenze riservando un po’ di umanità a chi raggiunge sfinito le sue coste. Evita però di fare ciò che le spetta: rivedere le politiche economiche e la politica estera a partire dai diritti dell’uomo e dei popoli. Sicché I poveri vengono assistiti per un po’. Dopodiché vengono abbandonati al loro destino. O rispediti indietro o abbandonati nella giungla europea del traffico di esseri umani, dello sfruttamento lavorativo, della clandestinità. I poveri speravano che l’Europa fosse un luogo dove l’umanità venisse prima della cittadinanza, prima del benessere, prima delle differenze religiose, prima di ogni altra cosa. Si sbagliavano. Il pensiero diffuso è che la loro situazione non dipenda da noi; che abbiamo già i nostri grattacapi e che in fondo i poveri siano la causa del proprio male. Al pari dei singoli paesi europei, anche i diversi settori dell’amministrazione statale scaricano sugli altri la responsabilità adducendo confusione normativa, paventando rischi di terrorismo e brandendo contro i poveri la croniche insufficienze dell’assistenza ai cittadini italiani. Proprio così: usando i poveri di casa nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare dalle regioni fino ad arrivare a moltissime amministrazioni comunali la risposta è sempre la stessa: per loro non c’è posto. Le parrocchie e i cristiani bergamaschi non si stanno comportando meglio. Ci pensi la Caritas, dicono. Neppure l’invito dell’amatissimo papa Francesco riesce a scuoterli. Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della Giustizia. Cominceremo a stare in una tenda perché se migliaia di esseri umani possono essere abbandonati per anni nella nostra Europa in tendopoli improvvisate, fangose, senza servizi (andate a Calais in Francia per vedere e credere) perché mai noi, che siamo esseri umani come loro, dovremmo abitare in una casa? Noi pensiamo di non essere più umani dei poveri perché ci debba essere concesso qualcosa di più...sapendo oltretutto che loro hanno di meno anche per colpa nostra. Se loro non hanno diritto a una casa allora questo diritto non l’abbiamo neppure noi. Non ci sembra un grande affare perdere l’umanità comune che ci lega ai poveri per godere del privilegio della cittadinanza. Essere cittadini è un onore. Ma se deve venire prima della nostra comune umanità allora vi rinunciamo volentieri.

Nella tenda sarete i benvenuti
I sacerdoti delle comunità di
Ambivere, Mapello e Valtrighe

domenica 7 febbraio 2016

(In) felici a 50 anni

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 4 febbraio 2016

(In)felici a 50 anni: quando si ama la vita e si teme di perderla

Secondo le statistiche è l’età più difficile, quella dell’ansia.
Dopo i settanta la situazione migliora. La serenità? Bisogna aspettare i 90
di Emanuele Trevi

Ho compiuto cinquantadue anni da poche settimane, ed è con una certa naturale inquietudine che ho appreso da una ricerca dell’Istat britannica (Office for National Statistics) di stare attraversando il periodo più infelice della mia vita. Almeno dal punto di vista statistico.
I risultati di una accurata ricerca sulla felicità riguardano 300 mila adulti, interrogati al riguardo fra il 2012 e il 2015. L’Inghilterra è l’Inghilterra, ma è altrettanto vero che il mondo è paese, quindi converrà anche a noi italiani di mezza età meditare seriamente sulle minacciose tabelle pubblicate sul sito del
Daily Mail.



La condizione migliore dopo i novanta
La grafica può essere più crudele di ogni parola. La prima tabella è dedicata proprio a lei, alla felicità, quell’impalpabile essenza che i filosofi e i poeti di ogni tempo hanno tentato invano di definire. Non la si può definire, ma a quanto pare la si può misurare, per fascia d’età. Ebbene, in corrispondenza del settore 50-54 anni la colonnina del grafico registra il minimo. Tanto per fare un esempio, la felicità fra i 70 e i 74 anni è addirittura quadrupla: davvero vale la pena smettere di fumare. Ma tutti ci battono, i trentenni come gli ultranovantenni.
La rivincita ce la pigliamo nella tabella dedicata all’ansia. 
L’età dell’ansia è il titolo di un grande poema moderno, uno dei capolavori di Wystan Hugh Auden, il maggior poeta inglese del Novecento. Ora possiamo circoscrivere bene questo concetto: ed eccoli lì in vetta, i cinquanta-cinquantaquattrenni, questi nuovi eroi contemporanei, i campioni dell’ansia. Ancora una volta, per registrare una significativa riduzione del problema, bisogna puntare verso i settanta. La condizione migliore si realizza oltre i novanta.

Le responsabilità verso genitori e figli
Molto inadeguata mi sembra l’interpretazione di questi dati così interessanti. Alla mia età, suggeriscono gli statistici britannici, si fa più pesante il «burden», il fardello della vita. Bisogna prendersi cura dei figli e dei genitori nello stesso tempo. Perché i figli si fanno sempre più tardi, e i genitori diventano sempre più vecchi. Eppure siamo ultimi anche nel sentimento di fare qualcosa di utile nella vita, il che è un po’ strano. Così come è strano che il prendersi cura di figli e genitori sia un «fardello» più capace di abbattere l’umore e suscitare l’ansia di tanti altri «fardelli» della vita. Perlomeno questo corrisponde a dei sentimenti del tutto naturali, e universali.
Forse per capire il senso di questi dati bisognerà impiegare ulteriori sfumature. Una cosa mi sembra verosimile, perché la sperimento in prima persona: l’ansia in effetti cresce. E come potrebbe essere diversamente?



La lezione dei «cinquanta»
Quando eri giovane, pensavi ai cinquant’anni come a un’età biblica, in cui tutto ciò che è possibile imparare dalla vita è stato imparato, nel bene e nel male. E invece, eccoti qui, che della vita non hai capito nulla, e hai il sospetto che ormai andrà avanti così, dovessi pure arrivare al beato traguardo dei novanta, dove molto probabilmente l’ansia si riduce non perché si capisce qualcosa, ma perché ci si rassegna. E poi, nessuno ci impedisce di riconoscere all’ansia e alla malinconia almeno un valore positivo incontestabile.
A loro modo, sono entrambi indici del nostro attaccamento alla vita, della nostra capacità di attribuire senso e valore a ciò che amiamo. E visto che amiamo, è naturale che soffriamo, perché iniziamo a renderci conto di come non c’è nulla che ci appartenga veramente, tutta la nostra vita potendo definirsi un prestito. E perché non lo avevate capito prima? Qualcuno potrebbe chiederci, perché proprio adesso? La risposta mi sembra semplice: solo quando hai imparato ad amarla abbastanza, capisci che una cosa la puoi perdere da un momento all’altro.
4 febbraio 2016
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