La tenda, i poveri e
noi
Una lettera di quattro parroci
Quaresima
2016
In Quaresima noi sacerdoti abiteremo
una tenda allestita sul sagrato della Chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un
bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti esseri
umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più
del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente. Questa decisione nasce dalla presa di
coscienza che il prezzo del nostro benessere è la riduzione in miseria di altri
esseri umani. E’ facilmente dimostrabile: se dovessimo garantire a tutti
gli uomini il tenore di vita europeo o americano avremmo bisogno di cinque
pianeti. Ma siccome ne abbiamo soltanto uno, noi occidentali ci siamo presi da
un secolo a questa parte il diritto di mettere le mani sulle risorse naturali
dell’altra parte del mondo e di saccheggiarle a piacimento. Per evitare
intralci abbiamo poi lavorato assiduamente per impedire che in quei paesi
crescessero democrazia, autonomia economica e diritti umani. Ecco perché i
paesi poveri continuano a restare poveri.
Se Europa e Stati Uniti dovessero
pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra
crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini
consumistiche. Il
costo della vita qui da noi è alto ma costerebbe ancora di più se i paesi
poveri potessero mettere al centro della loro economia i loro bisogni invece
che i nostri. Per questa ragione nessuno in occidente sembra prendere sul serio
una prospettiva del genere. Ecco dunque la nostra decisione: staremo in una
tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura
benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno
temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà. In ogni caso bisognerà mettere a punto
stili di vita coerenti con questa intuizione. Intanto con questo gesto vogliamo
dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del
mondo. E che si può essere felici anche con meno.
Ma le
ragioni della nostra scelta non finiscono qua. Se avete un po’ di pazienza
cerchiamo di spiegarlo. L’insaziabilità delle nazioni europee e degli Stati
Uniti non ha trovato freno neppure tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso,
quando la cultura dei diritti umani era riuscita ad appassionare ampi settori
dell’opinione pubblica e del mondo accademico e culturale. In quegli anni era
più difficile condurre guerre in santa pace senza avere alle costole qualche
attivista che gridasse in difesa dei diritti umani. Le cose poi hanno
cominciato a cambiare. In peggio.
Negli ultimi
trent’anni la ricchezza e il potere politico si sono concentrati a tal punto
nelle mani di pochi gruppi finanziari che questi sono stati in grado di mandare
intenzionalmente a rotoli interi scomparti dell’economia mondiale con l’intento
di trarre profitto dalla loro rovina. Hanno ingenerato così la crisi senza che
nessun governo o organismo internazionale abbia mosso un dito per impedirlo.
Proprio la crisi economica è stata l’ultimo atto di una commedia nella quale
l’occidente ingordo cadeva vittima di se stesso. La povertà ha cominciato così
a riguardare non soltanto il terzo mondo ma anche porzioni significative di
popolazione europea e americana. La crisi economica voluta dalle lobby
finanziarie con la complicità degli organismi internazionali di controllo e di
governo, ha messo sul lastrico famiglie, ha mandato in fallimento aziende, ha
provocato disoccupazione, ha generato precariato, indebitamento e sfruttamento
lavorativo, ha spento la fiducia, ha rubato il futuro ai giovani e la pensione
ai lavoratori. Il capitalismo selvaggio che fino ad allora aveva dissanguato il
terzo mondo, scatenava ora la sua offensiva sulle economie occidentali. Per i
poveri del terzo mondo le cose non cambiavano. Vittime erano. Vittime
restavano. Le cose sono cambiate invece per la classe media di casa nostra che
si è vista ridurre drasticamente il potere d’acquisto e le garanzie
previdenziali e assistenzia-li. Non è
stato difficile per i veri responsabili della crisi mondiale dirottare la
rabbia diffusa della nostra gente contro i migranti. E’ bastato descriverli
come invasori intenzionati a rubare il lavoro e a cambiare le nostre
tradizioni. E la gente ha abboccato prendendosela col nemico sbagliato.
Per
distogliere l’attenzione dalle loro catastrofiche politiche economiche ed
estere, i nostri governi (Stati Uniti in testa) hanno sempre scaricato la colpa
su qualche nemico esterno. Tempo addietro avrebbero dato la colpa all’Unione
Sovietica. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino era necessario trovare qualcun
altro. La scelta cadde sul mondo arabo islamico. Le ragioni sono storiche. Le
potenze vincitrici della prima guerra mondiale (Francia e Inghilterra in
particolare) si erano letteralmente divise a tavolino il Medio Oriente e il
Nord Africa instaurando un regime coloniale teso principalmente a sfruttare
economicamente quei territori e favorendo l’ascesa di regimi collaborazionisti.
La scelta di permettere l’insediamento violento di Israele espellendo i
palestinesi dalla loro terra natale, lasciando al contempo inattuate le
risoluzioni ONU che nel corso dei decenni hanno ripetutamente condannato il sedicente
stato ebraico è coerente con questa scelta colonizzatrice.
L’ingerenza
massiccia nel controllo dell’area mediorientale è venuta alla luce ogni volta
che emergevano aspiranti leader ribelli alla sottomissione imposta
dall’Occidente e dal suo avamposto Israele. La politica americana ha sempre
cercato dapprima di comprare l’obbedienza di questi leader. Quando la
compravendita non ha funzionato, l’America non ha mai esitato ad abbattere
questi leader mediante colpi di Stato e aggressioni militari sempre sulla base
di pretesti, a volte del tutto inventati. Nella più totale indifferenza
dell’Europa. E’ successo in Iran all’inizio degli anni ’50; è successo con
Saddam Ussein in Iraq. E’ successo con Gheddafi in Libia; sta succedendo adesso
con Assad in Siria (senza successo); è successo con il presidente Morsi in
Egitto non gradito a Israele; è successo perfino nella nostra Europa con il
colpo di Stato architettato dai servizi segreti americani in Ucraina neppure
due anni fa per deporre il presidente legittimo Yanukovich (colpevole di essere
amico dei russi) e insediare il fascista Porosenko, amico degli americani.
La necessità
sempre più frequente degli Stati Uniti e alleati di ricorrere apertamente alle
armi per costringere i popoli all’obbedienza, dimostra che l’impero americano
(e alleati) è diventato più debole economicamente e politicamente. La sua
leadership ha cominciato a traballare allorché nuovi soggetti economici hanno
fatto capolino: India, Cina, Brasile. E ora di nuovo la rediviva Russia. Il lento
declino avrebbe dovuto consigliare agli strateghi d’oltreoceano e a quelli
nostrani di modificare le proprie politiche economiche e militari, rinunciando
ad esempio a una quota di poteri e privilegi, favorendo una distribuzione più
equa delle ricchezze e promuovendo realmente la democrazia. Invece nulla di
tutto questo. Americani e soci hanno deciso di usare un pugno di ferro ancora
più duro per schiacciare chiunque avesse osato modificare la gerarchia del
mondo. Si spiega così la decisione all’inizio degli anni ’90 di dare una
lezione al vecchio alleato e dittatore Saddam, reo di usare la sua dittatura
contro gli interessi americani invece che in loro favore. Saddam in fondo
voleva emulare la politica conquistatrice dell’occidente. Il problema si sarebbe
potuto risolvere con altri mezzi. Un’ampia rete di movimenti manifestò in quei
mesi contro l’intervento militare. Bandiere colorate apparvero sui municipi,
sui campanili, alle finestre della case, nelle scuole. Ma i nostri governi
europei ascoltarono gli strateghi e i comandi statunitensi e vollero compatti
la guerra. Una coalizione di 34 paesi guidati dagli Stati Uniti sotto l’egida
dell’ONU muoveva guerra alI’Iraq riducendolo a brandelli e uccidendo in sette
mesi decine di migliaia di persone inermi. Prima o poi doveva succedere che il
costante sfruttamento da parte occidentale delle risorse altrui, la repressione
delle aspirazioni democratiche insieme al finanziamento della corruzione e del
terrorismo insieme ai bombardamenti avrebbe moltiplicato i focolai di guerra,
diffuso le cellule cancerogene della violenza e dell’estremismo di stampo laico
o religioso oltre che rendere la vita impossibile alle popolazioni di quelle
terre. La Guerra del Golfo fu il detonatore di questa spirale di distruzione
che è ancora in corso. Da allora il conflitto è andato allargandosi all’intero
Medio Oriente ed è stato ricorso continuo ai bombardamenti, crescita abnorme
delle vittime civili, diffusione di cellule terroristiche filo-occidentali e
anti-occidentali e fuga impazzita di milioni di persone dalla morte.
La crisi economica, la migrazione e
il terrorismo sono frutti delle insane politiche occidentali. Eppure vengono usate in Europa come
argomenti per convincere l’opinione pubblica a incrementare invece di ridurre
la politica muscolare della NATO e a rinunciare alla “patetica” difesa dei
diritti umani. Per quanto le
responsabilità dei nostri paesi siano clamorose e le vittime di questa guerra
siano soprattutto bambini, nessuno sdegno pacifista percorre più le strade d’Europa,
a meno che i morti siano europei, americani o israeliani. I civili europei
ammazzati meritano cortei. Quelli medio orientali no. L’Europa che negli anni
’90 aveva preso le difese dei neri in Sudafrica non c’è più. Cos’è successo da
ridurci in questo stato? La propaganda occidentale ha utilizzato la crisi e
il terrorismo per alimentare la paura e ridurre al silenzio la critica interna.
Poche, anzi pochissime sono le voci che si alzano contro la corsa europea agli
armamenti e gli interventi militari, contro i massacri di civili in Medio
Oriente, a Gaza e in Africa, contro le complicità degli stati nel traffico
degli esseri umani. Poche sono le voci indignate per la chiusura delle
frontiere, contro le politiche coloniali, contro l’ingerenza politico-militare
dell’occidente sempre travestita da intervento umanitario. Pochissime le voci
contro l’oppressione israelo-americana dei palestinesi, contro il vassallaggio
europeo nei confronti dell’America. L’indifferenza dell’opinione pubblica è
assordante. La gente d’Europa e d’America preferisce non conoscere. Preferisce
credere che se i nostri governi bombardano hanno sicuramente buone ragioni. E
che il terrorismo è una buona ragione per bombardare. Il risultato di queste
buone ragioni sono paesaggi rasi al suolo da cui spuntano come spettri rovine
di edifici a ricordare che un tempo sorgevano città. Degli abitanti nessuna
traccia: uccisi sotto i bombardamenti, giustiziati, morti di fame e sete, sotto
assedio per anni, venduti, comprati e rivenduti. Chi ha potuto si è messo in
fuga affrontando odissee inenarrabili, tallonato da paramilitari, eserciti allo
sbando, milizie straniere, mercenari al soldo di gruppi contrapposti. Chi ha
innescato tutto questo? A chi interessa che tutto questo continui? E
soprattutto: a chi interessa veramente saperlo?
Sono state
le cattive politiche occidentali il brodo di coltura che ha permesso alla
corruzione dei paesi arabi di prosperare, alla rivalità storica tra le fazioni
religiose di acutizzarsi e all’estremismo islamico di trovare pretesti. La
società “civile”, gli intellettuali e i mass-media occidentali non possono
nascondere o minimizzare questa responsabilità. E neppure sono autorizzati a
confondere le vittime con i carnefici. In uno stato di diritto le garanzie di
un processo equo vengono date a tutti, anche agli assassini, ai ladri, ai
violentatori. Che cosa autorizza l’Europa a chiudere le porte in faccia a gente
che fugge da guerre che l’Europa stessa ha contribuito a innescare? Com’è
possibile lasciare che le persone continuino ad annegare senza che l’Europa
decida uno straccio di corridoio umanitario a cui protezione sì che servirebbe
impiegare l’esercito?! La verità è che
l’Europa è avida. Vuole le ricchezze dei poveri, non i poveri. Ferma i profughi
alle frontiere mentre da più di un secolo le oltrepassa per spadroneggiare in
casa loro. La verità è che l’Europa non vuole più sottoscrivere i diritti
universali dell’uomo a cominciare dall’articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Nell’Europa di oggi, “essere umani” non
soddisfa i requisiti minimi. Ciò che serve in Europa in ordine di importanza
per ottenere riconoscimento è possedere capitali ed essere cittadini. Nessuna
via preferenziale a chi fugge dalle guerre. Lo status di rifugiato viene
rilasciato soltanto ad un prezzo altissimo: essere riusciti a scampare ai
bombardamenti, essere sopravvissuti alle torture, ai rapimenti e alle onde del
mare. Nessun riconoscimento è dato a chi proviene da regioni impoverite da un
sistema globale ingiusto e ha rischiato la vita per trovare dignità. Questa è
l’Europa: pronta ad amputare uno dei capisaldi della propria migliore
tradizione umanistica (i diritti dell’uomo) piuttosto che cedere quegli stessi
diritti ai poveri che essa stessa ha contribuito a creare. L’Europa delle
istituzioni scarica sulla buona volontà di molti cittadini volontari europei il
compito di salvare le apparenze riservando un po’ di umanità a chi raggiunge
sfinito le sue coste. Evita però di fare ciò che le spetta: rivedere le
politiche economiche e la politica estera a partire dai diritti dell’uomo e dei
popoli. Sicché I poveri vengono assistiti per un po’. Dopodiché vengono
abbandonati al loro destino. O rispediti indietro o abbandonati nella giungla
europea del traffico di esseri umani, dello sfruttamento lavorativo, della
clandestinità. I poveri speravano che l’Europa fosse un luogo dove l’umanità
venisse prima della cittadinanza, prima del benessere, prima delle differenze
religiose, prima di ogni altra cosa. Si sbagliavano. Il pensiero diffuso è che
la loro situazione non dipenda da noi; che abbiamo già i nostri grattacapi e
che in fondo i poveri siano la causa del proprio male. Al pari dei singoli
paesi europei, anche i diversi settori dell’amministrazione statale scaricano
sugli altri la responsabilità adducendo confusione normativa, paventando rischi
di terrorismo e brandendo contro i poveri la croniche insufficienze
dell’assistenza ai cittadini italiani. Proprio così: usando i poveri di casa
nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare dalle regioni fino ad
arrivare a moltissime amministrazioni comunali la risposta è sempre la stessa:
per loro non c’è posto. Le parrocchie e i cristiani bergamaschi non si stanno
comportando meglio. Ci pensi la Caritas, dicono. Neppure l’invito
dell’amatissimo papa Francesco riesce a scuoterli. Noi sacerdoti non possiamo
rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo
protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della
Giustizia. Cominceremo a stare in una tenda perché se migliaia di esseri umani
possono essere abbandonati per anni nella nostra Europa in tendopoli
improvvisate, fangose, senza servizi (andate a Calais in Francia per vedere e
credere) perché mai noi, che siamo esseri umani come loro, dovremmo abitare in
una casa? Noi pensiamo di non essere più umani dei poveri perché ci debba
essere concesso qualcosa di più...sapendo oltretutto che loro hanno di meno
anche per colpa nostra. Se loro non hanno diritto a una casa allora questo
diritto non l’abbiamo neppure noi. Non ci sembra un grande affare perdere
l’umanità comune che ci lega ai poveri per godere del privilegio della
cittadinanza. Essere cittadini è un onore. Ma se deve venire prima della nostra
comune umanità allora vi rinunciamo volentieri.
Nella tenda
sarete i benvenuti
I sacerdoti
delle comunità di
Ambivere, Mapello e Valtrighe